Una "Sanremo" …. del tubo

 

Il 1946 segnò il ritorno alla normalità dello sport del pedale. Durante il periodo bellico si era continuato a correre dove, come e quando si poteva, un po’ per passione, un po’ per necessità e un po’ per sopravvivere. Coppi era prigioniero degli Inglesi in Africa, mentre Bartali, rimasto in patria, impersonava una sorta di Perlasca della situazione, allenandosi duramente sul percorso Firenze-Assisi per portare, nascosti nel cannotto della sella, documenti destinati al Vaticano, impegnato nel proteggere gli Ebrei.

Malgrado tutto, nel 1945 si correva al di qua e al di là della linea gotica in quell’Italia martoriata e divisa in due.

Gino e alcuni altri amici corridori, a bordo di un camioncino, giravano per città, paesi e contrade come una compagnia di guitti (così li definirà Gianni Brera nel suo libro "Coppi e il diavolo") per organizzare corse in circuito e riuscire a portare a casa qualche spicciolo, tanto da sbarcare il lunario.

Le biciclette erano quelle di cinque anni prima. Qualcuno aveva riesumato qualche cimelio con l’obsoleto cambio Vittoria Margherita. Le maglie erano stinte e rattoppate, gli scarpini consunti. I tubolari valevano oro; si trovavano solo alla borsa nera e i corridori li rattoppavano decine di volte.

Le corse erano promiscue: professionisti, dilettanti e, talvolta, allievi, assieme.

Eppure si correva!

Fausto aveva risalito l’Italia fino a Castellania in sella ad una bicicletta messagli a disposizione dal costruttore romano Nulli. Indossando la maglia arancione con la scritta "Nulli" corse tutte le gare della stagione, dalla Liberazione in poi.

A fine ’45 si corse pure un Giro di Lombardia, vinto alla grande da Mariolino Ricci, ma la vera ripresa fu la Milano-Sanremo del 1946.

Nel 1946, una decina di case ciclistiche stipendiavano o aiutavano i corridori. Cominciarono a circolare biciclette e attrezzature nuove anche se non si navigava nell’oro.

Alla fine del 1945 Coppi aveva firmato per la Bianchi. La casa di viale Abruzzi aveva individuato nel ventiseienne atleta di Castellania il futuro campionissimo e gli aveva proposto un contratto, per quei tempi, principesco.

Fausto non voleva ovviamente deludere Zambrini, Tragella e compagni quindi si preparò a puntino e giunse alla Milano-Sanremo con quasi settemila chilometri di allenamento nelle gambe. Biagio Cavanna, il suo massaggiatore cieco, gli disse: "Più preparato di così non potresti essere. Nessuno dei tuoi avversari si è allenato tanto. Le gambe non sono un problema. Fai funzionare il cervello e segui quello che ti suggerisce l’istinto".

Poco più di un centinaio di ciclisti alla partenza alle 7,30 del 19 marzo 1946. Era ancora buio e faceva freddo. I corridori si coprivano come potevano: maglioni multicolori sopra la divisa da corsa, qualche giacca a vento, mutandoni di lana (altro che calzamaglia!), berretti pesanti. I più pittoreschi erano i non accasati: indossavano maglie di società dilettantistiche come il Velo Club Bustese, l’Azzini, la Macallesi, il Pedale Monzese, il Genova 1913, oppure maglie completamente anonime; sopra, per ripararsi dal freddo, avevano infilato vecchi maglioni pesanti trovati in casa, pieni di buchi e rammendi, tanto, dopo il Turchino, sarebbero stati gettati in qualche fosso; le biciclette erano vecchie e sverniciate, le borracce di alluminio ammaccate, i palmer frusti.

Coppi, invece, non aveva lasciato nulla al caso. La bicicletta, una Bianchi nuova di pacca, era stata alleggerita al massimo: solo la pompa sul tubo traverso e un tubolare legato dietro il sellino; niente borraccia per risparmiare sei etti di peso. E per bere? Certamente aveva predisposto uomini fidati in punti del percorso prestabiliti. Anche l’abbigliamento era stato studiato: berrettino di tela a quarti bianchi e celesti con la visiera abbassata, occhialoni da motociclista perché lo stato delle strade era pessimo, sopra la divisa biancoceleste nuova fiammante un pesante maglione con i colori della casa e l’abbottonatura sulla spalla, chiaramente residuato degli anni ’30, recuperato nei magazzini della Bianchi, un po’ demodé ma decisamente efficace; sopra il maglione un tubolare a tracolla e, infine, gambiere celesti di lana con abbottonatura laterale. Voleva proprio partire caldo il Fausto!

Appena abbassata la bandierina, cominciarono subito gli scatti dei cacciatori di traguardi a premio. Con l’aria che tirava, due o tremila lire facevano comodo a molti. Alcuni chilometri dopo, in località Badile, il francese Lucien Teisseire che, in Italia, correva per la Viscontea, scattò come morso dalla tarantola. Gli si accodarono altri nove corridori, tra i quali anche Fausto Coppi. Qualcuno rinunciò subito e si rialzò, ritenendo una pazzia partire così presto. A Pavia passarono in cinque al comando: il francese Lucien Teisseire di Nizza, il pistard Luigi Mutti di Milano, i due italiani residenti a Parigi Tolmino Casellato e Giacomo Bardelli nonché Fausto Coppi di Castellania.

Il gruppo, Bartali compreso, si disinteressò della fuga ritenendone impossibile la riuscita anche se tra i fuggitivi c’era un certo Coppi. Pareva una follìa ma l’idea di Fausto non era affatto folle: sapeva, per avergli corso al fianco nella Legnano, delle difficoltà che Gino era solito incontrare in partenza; infatti il campione di Ponte a Ema era abitualmente lento a carburare e cominciava a sentirsi a suo agio solo dopo un centinaio di chilometri. Era meglio, quindi, cercare di guadagnare il più possibile nella prima parte della gara per gestire poi il vantaggio durante la reazione del rivale.

A Ovada il vantaggio dei fuggitivi toccava i dieci minuti. Quando la strada cominciò a salire, uno scatto di Teisseire fece cedere di schianto Mutti, Casellato e Bardelli. A Masone la progressione di Coppi causò il cedimento del francese: la corsa era finita, anche se mancavano 147 chilometri al traguardo di Sanremo.

In vetta al Turchino Fausto passò con trenta secondi di vantaggio su Teisseire, affrontò la discesa su Voltri a tutta.

Finita la discesa, al piacevole tepore della riviera, tolse il maglione pesante e le gambiere, si rimise in posizione e via verso Sanremo.

La reazione del gruppo fu disordinata e inefficace. Bartali pareva stranamente abulico, gli altri rassegnati.

Coppi si presentò solo sul traguardo di Sanremo così come era partito da Milano: niente borraccia, la pompa sul tubo traverso del telaio, un tubolare legato al sellino, un altro a tracolla, il cappellino a quarti bianchi e celesti con la visiera abbassata, gli occhialoni da motociclista. Solo il maglione demodé e le gambiere non c’erano più, come smaterializzati.

I distacchi furono abissali: Teisseire conservò il secondo posto a 14’, dieci uomini, battuti in volata da Ricci e Bartali, giunsero a 18’30". Di un gruppetto con Toccaceli e Malabrocca non venne nemmeno rilevato il tempo perchè i cronometristi se ne erano già andati.

Grande impresa, quella di Coppi, alla "Sanremo" del 1946!

Grandissima impresa facilitata dalla incomprensibile arrendevolezza di Bartali. D’accordo, la sorpresa in partenza, la lentezza a mettersi in azione, ma da un campione caparbio come il toscano tutti si sarebbero aspettati almeno una reazione d’orgoglio. Invece niente.

Lo stesso Gino, molti anni dopo, raccontò così la "sua" Milano-Sanremo del 1946: "Macchè sorpresa pe’ l’attacco in partenza. Macchè scarso allenamento. Il Gino quel giorno l’era preparato a puntino. Il fatto l’è che l’ha fatto sciopero".

Bartali, che era venuto a conoscenza dell’ammontare dell’ingaggio corrisposto a Coppi dalla Bianchi, aveva esposto le sue rimostranze al direttore commerciale della Legnano, Della Torre: "Ovvia, ma che l’avrà mai fatto ‘sto Coppi per meritare tutti ‘sti quattrini più di me? L’ha vinto ‘l Giro del ’40 ma lì l’ha da ringraziare per primo ‘l cane che m’ha fatto cadere nella discesa della Scoffera. Se ‘un fossi caduto e ‘un mi fossi incrinato ‘l femore avrei potuto essere in corsa per la vittoria del Giro e lui l’avrebbe dovuto farmi da gregario. Magari io non avrei vinto ‘l Giro – anche se ‘un ci credo punto - ma lui ‘un l’avrebbe vinto di sicuro. Per secondo l’ha da ringraziare ‘l sottoscritto che l’ha mandato avanti sul Mauria quando l’era ‘n crisi e voleva ritirarsi con la maglia rosa addosso. L’ho convinto io a continuare, un po’ con le bone e molto con le cattive.

Poi ch’ha fatto? L’ha vinto ‘n po’ di corse, du’ titoli italiani dell’inseguimento su pista, uno però grazie alla sportività del Cino Cinelli che l’ha aspettato a fare la finale dopo che ‘l Coppi s’era rimesso dalla frattura della clavicola. L’ha fatto anche un record dell’ora che, però, non l’è mia stato ancora omologato: i giudici sono ancora là che misurano ‘l Vigorelli.

E poi, l’ha ancora da dimostrare d’esser bono di staccarmi in salita.

Il Bartali invece l’ha già vinto du’ Sanremo, tre Lombardia, du’ Giri d’Italia, un Tour che potevano essere due se non m’avessero fatto ritirare dopo la caduta nel torrente. Così come i Giri che potevano essere tre se ‘l Duce non m’avesse ordinato di stare a casa per prepararmi per il Tour".

Obbiettivamente, Bartali non aveva tutti i torti ma la potenza economica della Legnano non era paragonabile a quella della Bianchi.

Però lo sciopero della "Sanremo", se sciopero fu, fruttò a Gino un aumento dell’ingaggio che non avvenne in soldoni sonanti ma …. in natura. Infatti, ricevette dalla Legnano una partita di tubi per il gas che vendette subito al comune di Firenze.

Alcuni dissero che si trattava di tubi Falck, altri di tubi Mannesmann. Personalmente ritengo più probabile la seconda versione perché, a quei tempi, la Legnano impiegava proprio tubi Mannesmann nella costruzione delle proprie biciclette.

Ma, alla fine della storia, sorge spontanea una domanda: dobbiamo dare credito alla "verità" di Bartali o pensare, più semplicemente, ad una sua giornata storta?

Ciò che possiamo dire è che le uniche due cose certe in tutta questa vicenda sono che Coppi vinse la Sanremo con una fuga in partenza e che i famosi tubi, Falck o Mannesmann che fossero, finirono effettivamente al Comune di Firenze.

 

5 marzo 2006