La fuga-bidone e lo sciopero del Bernina
Sulla "Gazzetta" del 30 gennaio, Marco Pastonesi ha ricordato Carlo Clerici, scomparso un paio di giorni prima all'età di settantotto anni. Il breve racconto di Pastonesi mi ha fatto tornare alla mente il ricordo del Giro d'Italia del 1954, un Giro pieno di polemiche e di malumori, un Giro strano, svoltosi in maniera anomala, difeso dagli organizzatori e contestato da una buona parte della stampa sportiva.
Si veniva dal Giro 1953 con la splendida sfida Coppi-Koblet, conclusasi con il trionfo del campionissimo nella penultima tappa, quella che presentava per la prima volta il Passo dello Stelvio. Gli organizzatori immaginavano, per il 1954, una sorta di rivincita tra i due. Coppi portava sulle spalle la maglia iridata conquistata a Lugano e "Pettinino" Koblet era intenzionato a vendicarsi dello smacco subito l'anno prima sullo Stelvio. Nelle previsioni, la resa dei conti finale tra i due avrebbe dovuto svolgersi nella penultima tappa, Bolzano-St. Moritz, lungo le difficili rampe del Passo Bernina. "Ieri lo Stelvio, oggi il Bernina" era il motto degli organizzatori e la cosa sembrava del tutto prevedibile perché non appariva possibile che qualche altro corridore potesse intromettersi tra Fausto e Hugo. Bartali veleggiava verso i quaranta e correva ancora - diceva lui - perché gli era stato imposto dal medico dopo il pauroso incidente automobilistico dell'autunno 1953 a Cermenate. Bobet, con tutti i francesi, era rimasto a casa a causa della crociata sollevata dai cugini transalpini contro gli abbinamenti extra-ciclistici inventati da Fiorenzo Magni con la sua "Nivea-Fuchs". I belgi puntavano alle volate di Rik I Van Steenbergen, i tedeschi erano in gita turistica anche se capitanati da quell' Heinz Muller che, nel 1952, si era laureato campione del mondo grazie alla rottura della sella di Magni. Gli olandesi erano lì per dare un po' di battaglia e diventare rossi paonazzi sotto il nostro sole mentre gli spagnoli potevano permattersi solo qualche sparata in salita.
Degli italiani il più coriaceo avrebbe dovuto essere Magni ma, a quanto si diceva, il campione toscano-monzese era . incavolatissimo perché gli organizzatori avevano previsto un lauto ingaggio a Coppi e Bartali e a lui nisba. Gli altri, Monti, Astrua, Fornara, Coletto, Conterno, Minardi, Nencini e De Filippis, erano ancora delle promesse che non davano un sicuro affidamento in una corsa di tre settimane.
Dal 1953, e la cosa sarebbe durata fino al 1957, il Giro d'Italia era retto da una formula ibrida. Nel tentativo di emulare il successo del Tour, corso per squadre nazionali, le squadre italiane potevano schierare solo corridori italiani, mentre i corridori stranieri venivano raggruppati in squadre nazionali a volte sponsorizzate da ditte italiane. Fu così che la squadra svizzera fu sponsorizzata e diretta da Learco Guerra. L'ex locomotiva umana schierò il suo pupillo Hugo Koblet come prima punta e il piccolo Fritz Schaer come seconda punta; chiamò poi due svizzerotti, uno dal nome di un wurstel, Marcel Huber, e l'altro dal nome di una birra, Martin Metzger. Completavano l'organico tre italo-svizzeri, l'esperto Emilio Croci Torti, Remo Pianezzi e Carlo Clerici.
Carlo Clerici, nato a Zurigo nel 1929 da padre italiano e madre svizzera, era stato naturalizzato svizzero appena due mesi prima. Aveva esordito tra i professionisti nel 1951 con la maglia della svizzera Condor, squadra per la quale avrebbe corso per tutta la carriera. Si era messo in evidenza nel 1952 vincendo un Gran Premio Suisse a cronometro e classificandosi terzo al Giro della Svizzera. Grazie ai regolamenti di allora, che prevedevano la doppia appartenenza, nel 1952 e 1953, partecipò alle corse italiane con la maglia della Welter del commendator Tagliabue. Nel 1953 fu protagonista di un episodio increscioso: al Giro d'Italia, anziché rispettare gli ordini della Welter, aiutò il suo amicone Koblet nella lotta contro Coppi. Ci fu un diverbio con il "commenda": Clerici si ritirò e la Welter lo licenziò.
Il Giro del 1954 partiva da Palermo per risalire tutto lo stivale fino alle Dolomiti, all'escursione in terra svizzera con il Bernina e all'arrivo a Milano.
La prima tappa, il Circuito del Monte Pellegrino a cronometro a squadre, fu stravinta dalla Bianchi che rifilò oltre quattro minuti agli svizzeri. Coppi indossò la maglia rosa sopra quella iridata. I tifosi impazzivano e davano già per scontato il risultato finale, invece quella sarebbe stata l'ultima maglia rosa indossata dal grande Fausto.
L'indomani, nella Palermo-Taormina, 280 km di saliscendi nella calura dell'isola, successe il finimondo. Le seconde linee diedero battaglia e il romagnolo "Pipaza" Minardi, giovane capitano della Legnano, giunse solo con quattro minuti e mezzo su Magni. Coppi andò in crisi e Koblet, accortosene, diede battaglia e gli rifilò cinque minuti. Ci furono polemiche sulla crisi di Coppi: si parlò di una indigestione di ostriche e di un cuoco genovese individuato come "Baciccia".
Le successive tappe nel mezzogiorno furono corse all'arma bianca dagli uomini di secondo piano ma "Pipaza" seppe resistere fino alla Bari-Napoli, tappa nella quale andò a buon fine una lunga fuga nella quale si era intrufolato anche Van Steenbergen a caccia di vittorie di tappa e di traguardi volanti. A Napoli il grande Rik vinse la volata con una gamba sola e l'olandese Gerrit Voorting indossò la maglia rosa.
La continua latitanza degli assi indispettiva organizzatori e tifosi mentre alcuni giornalisti addossavano le colpe agli ideatori del percorso del Giro. E venne la settima tappa, Napoli-L'Aquila di 252 km, che passò alla storia come la tappa della "fuga-bidone". Alcuni corridori inscenarono una fuga da lontano; qualcuno si rialzò soddisfatto di qualche traguardo volante e rimasero in testa in due, Carlo Clerici e Nino Assirelli, ventinovenne forlivese dell'Arbos, noto per avere vinto per distacco la Torino-San Pellegrino dell'anno prima. Il gruppo si disinteressò completamente della fuga. Coppi, forse, era ancora in bacino di carenaggio dopo le ostriche di Palermo o aspettava le montagne. Koblet aveva l'alibi di un suo compagno di squadra in fuga; Magni, probabilmente, pensava: "Datevi da fare voi che avete avuto l'ingaggio!". Tutti gli altri aspettavano che si muovessero gli assi.
Fu così che il vantaggio dei due fuggitivi continuò ad aumentare. Assirelli si assunse il maggior peso della fuga a fronte - si disse - della promessa di Clerici di non disputare la volata finale. Sulla pista in cemento del capoluogo abruzzese Clerici battè Assirelli di mezza ruota o forse meno. Il gruppo degli assi giunse con 34' di ritardo e Clerici indossò la maglia rosa.
Tecnici e giornalisti non diedero troppo peso a questi distacchi perché . tanto, sarebbero arrivati l'Abetone, la cronometro, il tappone dolomitico e il Bernina. Ci fu qualcuno che scrisse anche dei grossi problemi che avrebbe dovuto affrontare Learco Guerra per tenere a bada i due galletti Koblet e Schaer in un pollaio in cui era entrato un altro galletto, Clerici, con ben mezz'ora di vantaggio. Quel furbacchione di Guerra prese la palla al balzo e, astutamente, spiegò a destra e a manca che nulla era cambiato: Koblet restava sempre il capitano con Schaer seconda punta perché Clerici era giovane, aveva solo venticinque anni, e non si sapeva quale sarebbe stato il suo rendimento sulle montagne.
Nelle tappe successive i comprimari ebbero ancora via libera. I girini passavano per città e paesi subissati dai fischi.
A Firenze, per fare contento il suo capitano Bartali, Giovannino Corrieri vinse la tappa con una volata di potenza che stroncò Rino Benedetti. Emilio De Martino scrisse apertamente che avrebbe voluto vedere Bartali, l'unico a non essere stato fischiato, primo nella sua Firenze: "Ah, se avesse vinto Gino, oggi! La folla, non sofisticando sul fatto che una vittoria dell'anziano atleta toscano avrebbe avuto ora il valore del canto del cigno, sarebbe stata incontenibile!".
Bartali spiegò allo stesso De Martino come fosse difficile per lui andare in fuga: " 'un mi lasciano andare. Gli altri, i Voorting e i Clerici, possono permettersi lunghe fughe solitarie e i campioni miha gli vanno dietro. Se 'nvece mi movo io son tutti lì attaccati alla mi' rota. Mi considerano, dunque, ancora pericoloso alla mi' età?".
Anche dopo Firenze non successe nulla di particolare. All'Abetone vinse Mauro Gianneschi un corridore dell'Arbos di formato tascabile. La cosa che fece più notizia fu un pugno sferrato dal veneto Adolfo Grosso sul naso del lombardo Scudellaro. Scudellaro, che di nome faceva Tranquillo, incassò e portò a casa.
Giunse infine la tanto attesa cronometro, 42 km da Gardone a Riva del Garda. La spuntò Koblet per 27" su Coppi e un paio di minuti su Magni. Clerici, discreto passista, cedette al suo capitano circa due minuti e mezzo, una inezia rispetto al suo cospicuo margine di vantaggio. L'astuto Guerra cominciava a fregarsi le mani sempre più convinto di avere messo tutti nel sacco.
Nella Grado-San Martino di Castrozza, alla vigilia del tappone dolomitico, Bartali cadde rovinosamente assieme a Corrieri e ad altri. Corrieri era mezzo svenuto, Gino aveva la maglia a brandelli ma il vecchiaccio non mollò: "Ovvia, Giovannino, alzati e cammina! Di giri ne ho fatti tredici e 'un mi so' mai ritirato, 'un vorrai miha che mi ritiri al quattordicesimo". Gino e Giovannino, aiutati dal fedele Baronti, recuperarono cinque minuti e rientrarono in gruppo.
Finalmente arrivò il tappone dolomitico, da San Martino di Castrozza a Bolzano per 152 km. Vinse Coppi per distacco, 1'52" su Astrua e Koblet. Non mancarono i "peana" per l'impresa del Campionissimo e crebbe in maniera smisurata la fiducia in una grande impresa sul Bernina il giorno dopo. In realtà il Giro era finito da un pezzo; Coppi aveva ancora mezz'ora di ritardo da Clerici. L'impresa di Bolzano era stata una vampata d'orgoglio favorita anche dal fatto che ormai Koblet faceva il gregario dell'amico Clerici che, peraltro, si era egregiamente difeso in salita.
Tutti si aspettavano sfracelli dalla tappa del Bernina e sfracelli furono ma . all'incontrario. I corridori superarono la salita svizzera tutti in gruppo: lo "sciopero del Bernina". Il direttore di corsa, Giuseppe Ambrosini, cercò di richiamare più volte i corridori alla loro dignità. Uno di loro gli rispose: " Noi le vogliamo bene, ma oggi è . così". Verso la fine della tappa, quando ormai la maglia di Clerici era in cassaforte, scattò Koblet; al suo inseguimento si lanciò solo il vecchio Gino, un po' per dare retta al suo carattere ribelle e un po' per fare una "furbata" che gli avrebbe evitato i fischi del pubblico. Morale: primo Koblet, secondo Bartali a 1'46" poi il gruppo regolato da Renato Ponzini a una manciata di secondi. Il Giro era finito con Clerici in maglia rosa, Koblet a 24', Assirelli a 26', Coppi a 31' e Astrua a 33'.
Il giorno dopo al Vigorelli, dove Rik Van Steenbergen vinse . per distacco una volatona a ranghi completi, fischi per tutti tranne Bartali, Assirelli e, in parte, Clerici. Il più contestato fu naturalmente Coppi e le invettive, anche se per la verità i giornalisti si erano comportati in modo assolutamente discreto, coinvolsero massicciamente la "dama bianca".
Qualche ingiusto fischio se lo beccò anche Clerici il quale non aveva alcuna colpa dell'accaduto ma piuttosto il merito di avere sfruttato una grande opportunità. Qualcuno scrisse: "E' nato un campione!" cercando di dare una maggior valenza a quella trentasettesima edizione del Giro. Niente di più falso. Clerici tornò al suo ruolo di gregario restando, per le gare del calendario italiano, alla corte di Learco Guerra anche nel 1955 e 1956; alla fine del 1957, a soli ventinove anni, concluse la carriera e al suo nome rimase sempre associato il concetto di "fuga-bidone".
Per terminare mi piace ricordare come Pastonesi ha chiuso il suo articolo: "Poi Clerici tornò gregario: una vittoria al Campionato di Zurigo 1956, una vita di borracce e spinte, inseguimenti e piazzamenti. E come succede spesso ai gregari, era un gentiluomo: sposò una ragazza che aveva salvato da una valanga".
05 febbraio 2007