Profumo di biciclette

 

Alla fine della seconda guerra mondiale l’Italia era veramente in "braghe di tela". La felicità per la fine di un periodo di indicibili sofferenze si mescolava alla povertà, ai problemi di un paese da ricostruire e ad un futuro caratterizzato da mille punti di domanda.

Era il periodo delle toppe nei pantaloni, degli abiti rivoltati tre volte, dei calzini rammendati con la palla di legno per dieci volte con fili di dieci colori diversi. Nelle città la vita era ancora più dura e sui davanzali delle finestre, nelle giornate di sole, si potevano vedere centinaia di palle di carta poste ad asciugare. La tecnica era sempre la stessa: si prendevano le pagine dei vecchi giornali, si bagnavano, si appallottolavano e si mettevano a seccare per bruciarle nella stufa in inverno.

Chi ha vissuto queste miserie in prima persona penso che non potrà mai dimenticarle così come non potrà mai dimenticare le mense comunali, i pasti in latteria, le sigarette rifatte con la macchinetta utilizzando i mozziconi raccolti per strada, i barboni, le bidonville, le case diroccate, i muri pericolanti, gli scarafaggi che invadevano le case, i bagni pubblici frequentatissimi la domenica mattina.

Per le strade si udiva la voce dell’arrotino, dello straccivendolo e, a volte, il suono di una pianola più o meno stonata.

Al cinema proiettavano qualche vecchio film di Stanlio e Ollio, qualche datato drammone con Clara Calamai, Elisa Cegani, Andrea Checchi e il solito integerrimo Amedeo Nazzari dalla voce cavernosa. I film nuovi erano pochi e tutti da "magone": Paisà, Sciuscià, Umberto D, Ladri di Biciclette. Un alito di ottimismo fu portato da Vittorio De Sica con la sua fiaba "Miracolo a Milano".

L’allegria veniva invece dalla musica. Vennero rispolverate molte canzoni allegre: Stramilano esse-ti-erre-a-emme-i-elle-a-enne-o, la Torre di Pisa che pende che pende e mai non vien giù, la campagnola bella. Fecero un successone "I pompieri di Viggiù", "Eulalia Torricelli da Forlì" e "Arrivano i nostri". Capitava anche che qualcuno, soprappensiero, fischiettasse sbadatamente: "Faccetta nera, bella abissina, aspetta e spera che già l’ora s’avvicina …."

La gente andava a ballare volentieri perché, forse, era il divertimento più economico e, accanto ai sempiterni valzer e tango, presero piede balli di movimento: il boogie-woogie, introdotto dalle truppe americane, la raspa e lo spirù.

In questo strano e contraddittorio cocktail di allegria e di gravi problemi, mio padre doveva sbarcare il lunario per tutta la famiglia. Qualche anno prima aveva abbandonato un ottimo lavoro di tornitore alla Breda per non essere costretto ad andare a lavorare in Germania. E come dargli torto? Nel periodo bellico aveva fatto piccoli lavori in casa sfruttando le sue conoscenze di meccanica ed elettrotecnica. Poi, finita la guerra, aveva continuato a riparare stufette elettriche, ferri da stiro e a montare lampadari e abat-jour. Obiettivamente non era un granchè.

La svolta arrivò a metà del 1946 quando conobbe il Traldi. Il Traldi era un costruttore di biciclette ed aveva una discreta fama. Aveva un bel capannone all’interno di un cortile di viale Lombardia e le richieste erano tante. La biciclette allora non era un mezzo di trasporto ma "il mezzo di trasporto" per antonomasia e, in quel periodo, sorsero numerosissime piccole ditte costruttrici. La "Traldi" era una marca affermata, aveva fama di produrre biciclette solide e ben curate e si trovò a dovere ricorrere, per il montaggio, anche a piccoli artigiani.

Fu così che papà cominciò a montare le biciclette per il Traldi in un angusto rifugio antiaereo di via Padova che prendeva aria solo da una minuscola bocca di lupo con tanto di grata. Fortunatamente, in fondo al cortile dello stesso stabile c’era un vecchio portico invaso dalle erbacce, papà fece un accordo con il proprietario e il piccolo portico divenne un mini-capannone, ideale per il montaggio delle biciclette. Ci sembrava di toccare il cielo con un dito.

Nonno Peppino, sfruttando al meglio le sue doti di falegname dilettante, ma non troppo, costruì una parete-scansia per dividere l’ingresso con la zona magazzino materiali dalla zona montaggio. La parete-scansia era verniciata di un blu che mi ricordava tanto il colore di un trenino di legno che nonno Peppino aveva costruito per me.

Quando arrivavano dalla "Traldi" i telai delle biciclette da montare era una vera festa. Li portava un operaio dal capannone di viale Lombardia a bordo di un triciclo con tanto di cassone tra le due ruote anteriori. I telai erano bellissimi. Erano protetti da una carta crespata marroncina avvolta a spirale. Tra le spire della carta baluginavano meravigliosi colori ed abbaglianti cromature. La carta di protezione non veniva mai tolta, se non nelle parti indispensabili, nemmeno durante il montaggio. Spesso, senza farmi vedere, ne spostavo qualche lembo per vedere meglio quelle meraviglie.

Altre volte l’omino dal mitico triciclo portava gli accessori: cerchi, manubri, selle, copertoni, camere d’aria, raggi, guarniture, pedali e pedivelle.

Mentre i telai venivano infilati in lunghe traverse di legno sostenute da staffe fissate ad una parete, gli accessori venivano ordinatamente riposti nella scansia blu. E la scansia blu divenne il mio regno. Mi ci arrampicavo e poi mi raggomitolavo in un angolo libero e osservavo i vari accessori cercando di capire a cosa servissero.

Sulla scansia blu c’era di tutto. Mi attiravano in particolare le cose più piccole come le scatoline delle ranelle e dei nippli destinati al montaggio delle ruote. "Una grossa ranelle", "una grossa nipples" era scritto sulle scatoline. Solo dopo molti anni venni a sapere che "una grossa" voleva dire cinquecento pezzi, però sapevo perfettamente a cosa servissero quelle minuterie. I nippli, indicati "nipples" all’inglese sulle scatole, venivano comunemente chiamati così anche al singolare: "Damm un nipples per piasè".

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Poi c’erano le scatole piatte contenenti le catene ben oliate e protette da una carta che spesso lasciava fuoriuscire un po’ d’olio che aveva un odore particolare come particolari e potenti erano gli odori delle coperture e delle camere d’aria. Mi piacevano moltissimo e avrei saputo distinguere l’uno dall’altro ad occhi chiusi. I tubolari avevano un profumo diverso, profumavano di corse, di avventura, di Giro d’Italia, di Coppi e Bartali. Di tubolari, purtroppo, ce n’erano pochi perché erano poche le bici da corsa da montare. Erano poche, quindi, anche le selle da corsa. Le "Aquila" erano scure, quasi nere e abbastanza morbide, le "F.N.I" erano marrone chiaro e dure come cemento. Entrambe, però, emanavano un inebriante profumo di cuoio. Un profumo di cuoio più discreto proveniva anche dai borsellini porta attrezzi da sistemare dietro le molleggiate selle delle bici da viaggio. Quei borsellini erano destinati a contenere un paio di chiavi multifunzionali, pezze ricavate da vecchie camere d’aria, qualche pezzo di carta vetrata e il tubetto di mastice, la cosiddetta "soluzione".

C’erano poi montagne di raggi incartati come fossero spaghetti, una certa quantità di nastri per manubrio "Gaslo", freni, pedivelle, pedali, guarniture, fanali, dinamo, mozzi, ruote libere, guaine, cavetti, retine protettive per le ruote posteriori delle biciclette da donna.

In una zona separata della scansia blu erano riposti i manubri con le relative serie sterzo e gli "expander", i lunghi bulloni ad espansione che servono a tenere uniti tutti gli organi di guida della bicicletta. La parola inglese "expander" veniva regolarmente storpiata e diventava "spander" e da questa storpiatura il grande Gianni Brera trasse il suo famoso "sciusciaspander", sinonimo di "mordimanubrio".

I telai, però, erano la cosa più bella. Tutti allineati, in attesa di passare al montaggio, leggeri, all’apparenza deboli ma in realtà forti e resistenti. Anche loro profumavano. Andavo ad annusarli, ficcando il naso nell’apertura superiore del tubo piantone. Odoravano piuttosto marcatamente di ferro, lo stesso odore che emanavano gli abiti, la pelle e il respiro degli operai della Breda che ti capitava di avere vicino nel pigia-pigia di un tram affollato. Era meraviglioso.

Delle biciclette sapevo quasi tutto e qualcosa, nel mio piccolo, facevo anch’io: mettevo in posizione le sfere del movimento centrale e dello sterzo, infilavo i raggi nei mozzi e ne fissavo le estremità ai cerchi inserendo "nipples"e ranelle. La centratura della ruota? Beh, quella no. Quella la faceva papà.

Quando capitava di dovere montare una bici da corsa non perdevo un dettaglio dal momento in cui il telaio veniva appeso ai due ganci pendenti dal soffitto a quando la bici veniva caricata sul triciclo del Traldi. La cosa più affascinante era comunque il montaggio del cambio di velocità, il mitico "Campagnolo a doppia leva".

Gli affari per il Traldi andavano a gonfie vele e nel mio cervello di bambino continuava a frullare un’idea: perché non "metteva su" una squadra ciclistica? Un giorno lo chiesi a papà e mi diede una risposta che mi parve quella che si dà così tanto per far piacere ad un bambino: "Lascia che la ditta si ingrossi un po’ e vedrai che, magari fra un paio d’anni, anche la Traldi avrà la sua squadra, non con Coppi o Bartali ma con qualche buon corridore giovane".

Dopo qualche tempo rivalutai la risposta di papà perché il Traldi fece fare una certa quantità di magliette da corsa. Erano azzurre con la fascia gialla, identiche a quelle della "Viscontea". Papà e le altre due o tre persone che lavoravano per lui le indossavano durante il lavoro. Ne avevo una anch’io perché ne erano state confezionate alcune anche in taglia da bambino. Mi pareva di sognare: stavo per vedere la "Traldi" al Giro d’Italia.

Il mio sogno purtroppo svanì presto; il "boom" delle motociclette e, soprattutto, degli scooters fece calare in modo impressionante la vendita delle biciclette. Molte piccole aziende dovettero chiudere e anche il Traldi dovette ridimensionarsi, resistette in qualche modo fino al 1958 e poi fu costretto ad abbandonare. Papà, nel frattempo, si era messo a riparare motociclette e scooters e a me rimase solamente il ricordo dei profumi del ferro dei telai e dei vari accessori passati dalla scansia blu.

 

7 maggio 2007