La salita di Mattaleto

 

La guerra era finita da alcuni mesi. In Italia si dimenticavano la miseria e i danni spaventosi dei bombardamenti con la felicità di avere chiuso un incubo durato anni. A Milano c’erano macerie dappertutto, molte finestre avevano ancora cartoni al posto dei vetri e per riscaldarsi si buttavano nella stufa palle di carta di giornale precedentemente ammollate in una bacinella d’acqua, appallottolate e quindi fatte asciugare al sole. La miseria imperversava.

Mio padre, aiutato da mia madre, cercava con enormi sforzi di "metter su" un’attività in proprio. Io ero piccolo e capivo poco ma capivo. Mi mandarono per lunghi periodi a Langhirano da nonna Adele e nonno Peppino perché in campagna si mangiava qualcosa di più.

Nonno Peppino mi adorava e mi viziava oltre il consentito per quei tempi. Era un fanatico del ciclismo e di Bartali e, malgrado i tempi grami, riuscì a trovare un telaio grigio di una biciclettina da bambina. Raccattò sella, ruote, parafanghi, manubrio e, un po’ da solo e un po’ con l’aiuto di Leoni, uno dei tre meccanici ciclisti del paese, riuscì a mettere insieme quella che fu la mia prima bicicletta. Sulla punta del parafango anteriore aveva avvitato una statuina metallica di Fortunello e poi aveva applicato le rotelle.

Si impegnò tanto, nonno Peppino, ad insegnarmi ad andare in bicicletta che molto presto le rotelle non servirono più. Avevo quattro anni.

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Entusiasta dei miei progressi, mi fece fare una maglietta amaranto con una fascia trasversale gialloblù: era la maglia dell’Audax, una delle più gloriose società ciclistiche di Parma. Mi scattò poi diverse foto con una vecchia macchina a soffietto. La biciclettina grigia da donna con Fortunello sul parafango mi durò un paio d’anni, poi nonno Peppino, sulle ali dell’entusiasmo per la vittoria di Bartali al Tour del ’48, decise di farmi una biciclettina da corsa. Gli diede una mano mio padre che, nel frattempo, a Milano, in un ex rifugio antiaereo, si era inventato una attività di montaggio biciclette per conto della ditta Traldi.

Fu così che, all’inizio del 1949, ebbi la mia biciclettina da corsa. In realtà era una normale bici da bambino blu alla quale era stato applicato un manubrio da corsa. Nonno Peppino trovò anche due piccolissime borracce di alluminio che vennero appese al centro del manubrio con un sistema di piattine di alluminio sagomate con maestria. Due cannucce, ottenute con pezzi di guaine dei fili dei freni, furono inserite nei tappi di sughero e, attraverso queste, potevo bere succhiando dalle borracce senza staccare le mani dal manubrio.

Per completare la sua opera di "bartalizzazione", nonno Peppino mi fece fare una maglia gialla con colletto e bordi blu e con la scritta "Bartali". I tocchi finali furono gli scarpini da ciclista fatti da Patrizi, un calzolaio suo amico, e il cappellino di tela a spicchi gialli e blu con la visiera di celluloide gialla. Insomma, fu un lavoro maniacale, impensabile in considerazione dei tempi. Papà mi fece avere poi una maglietta celeste con fascia giallo chiaro della Traldi.

Io toccavo il cielo con un dito. Forse, anzi sicuramente, sollevavo l’invidia degli altri bambini del paese che giravano zampettando sulla bici della mamma senza riuscire ad arrivare alla sella o infilavano di traverso le gambe nel triangolo del telaio della bici di papà. Non mi rendevo conto della fortuna che avevo avuto e, nella mia fantasia, mi inventavo imprese ciclistiche incredibili. Ogni uscita in bici era il pretesto per sognare fughe, volate, inseguimenti, trionfi, cotte. Gli spunti per queste fantasie derivavano dalle cronache radiofoniche e dalle foto delle riviste sportive.

Quando uscivo dalla casa dei nonni dovevo percorrere non più di duecento metri per arrivare in paese. Subito mi trovavo con due campi ai lati della strada. Quello di sinistra era il campo di Sandrella ed era generalmente seminato ad erba medica. Sandrella era un bartaliano convinto e, quando passavo indossando la maglietta gialla, mi urlava: "Dai, dai, Bartalén!". Quello a destra era il campo di Santén che tifava Coppi non so se per convinzione o per fare dispetto a Sandrella. Santén coltivava prevalentemente granoturco, teneva il cappello sulle ventitré, indossava un vecchio gil consunto e teneva in bocca un mezzo toscano eternamente spento. Quando passavo mi diceva: "Buta via cla maja lì o fag scriver su Coppi!"

Se indossavo la maglia della Traldi, Santén, che probabilmente interpretava il giallo chiaro come bianco, apprezzava: "Acsì va mej. Forsa Coppi!".

Ogni volta che nonna Adele mi mandava a fare qualche commissione era come se dovessi correre una Milano-Sanremo o un Giro di Lombardia. Mentre pedalavo mi inventavo radiocronache impossibili con riferimenti, nomi e luoghi che avevo sentito alla radio o letto sui giornali.

Però c’era qualcosa che mi attraeva più di tutto ed era la salita di Mattaleto. Mattaleto è una minuscola frazione del comune di Langhirano ed è posta sulla collina. A Mattaleto, ancora oggi, ci sono poche case, il cimitero e una bella chiesa che domina la vallata.

Da casa dei nonni alla chiesa di Mattaleto non ci saranno stati più di tre chilometri, tre chilometri di fantasia. Superati i campi di Sandrella e di Santén, raggiungevo piazza Corridoni, Gildo il gommista, la rimessa delle corriere, il bar Valenti, il monumento agli alpini, lo stabilimento di stagionatura prosciutti di Bixio Bianchi.

Poi superavo la salumeria di Tosini, dove affettavano il prosciutto con una meravigliosa Berkel rossa, quindi il negozio di panetteria di Luigén, unico democristiano in consiglio comunale. Dopo l’osteria dell’Aquila Nera mi fermavo a riempire le borracce alla fontana della Madonna. La fontana era chiamata così perché era di fronte alla chiesa parrocchiale; veniva azionata girando una grande ruota e spesso avevo bisogno dell’aiuto di qualche adulto. Poi c’era la chiesa, il cinema, la panetteria di Giacomino, la drogheria di Giovanén con la scritta "Da Giovanén, pan, pasta, droghi e salamén". Dopo il negozio di ferramenta di Soncini, il negozio di scarpe di Dalcò, parente delle sorelle Fontana, la tabaccheria di Rossetti e la macelleria di "Bonierba" (prezzemolo), sulla sinistra c’era il negozio di Gavazzoli, praticamente un emporio grande e buio dove si compravano quaderni, penne, matite, pentole, arnesi per la casa, sementi e attrezzi per l’orto. Gavazzoli vendeva anche le figurine dei calciatori e dei ciclisti. Erano le figurine di cartoncino che noi ragazzini andavamo ad applicare su un vecchio quaderno usando la colla fatta con acqua e farina. In materia di figurine non si poteva dire che Gavazzoli fosse molto aggiornato perché, assieme a Bartali e Coppi, ci capitava di trovare ancora Di Paco, Del Cancia, Valetti, Martano.

In piazza Garibaldi iniziava la parte qualificante della mia impresa sportiva. Lasciavo a destra il campanile dell’orologio e a sinistra un palazzo di tre piani di proprietà di Renata Tebaidi. Il palazzo aveva un grande terrazzo sul tetto e, a piano terra, l’ufficio postale condotto da una zia del grande soprano. Tra il campanile dell’orologio e la casa della Tebaldi, c’erano cinquanta metri di strada in salita che portavano in Rocchetta, un piazzale rettangolare in gran parte acciottolato. Una cinquantina di metri dopo, una Madonnina, chiusa in una nicchia ricavata in un vecchio muro sgretolato, segnava la fine dell’asfalto e lì iniziava la vera e propria salita verso Mattaleto. Smanettavo su un cambio inesistente, mi alzavo sui pedali e rilanciavo l’azione tra polvere e ghiaietto. Di volta in volta affrontavo Pordoi, Falzarego, Sella, Gardena e Rolle ma, più spesso, la mia fantasia mi portava al Tour e i miei avversari diventavano Kubler, Koblet, Bobet, Robic, i fratelli Lazarides, Piot, Brulè, Idèe, Teisseire, Schotte, il lussemburghese Goldsmith, il negrone Zaaf. Van Steenbergen no. Van Steenbergen non c’era mai: non poteva un velocista come lui tenere il nostro passo in salita. Le salite da superare erano tutte francesi e storpiavo i loro nomi così come li capivo dalle cronache radiofoniche né conoscevo bene la geografia quindi poteva capitare che, in una Gap-Briansòn, ci fossero da affrontare Peiresùrd, Isoàrd, Turmalé e Galibié. Non disdegnavo però anche colli di seconda e terza categoria come la Cruà de fer, la Cruà de la sentinèl e, soprattutto, la Cruà de l’om mort.

Il primo tratto era dritto e ripido poi c’era una curva a sinistra dove le poche auto di passaggio avevano scavato due solchi profondi, ammonticchiando il ghiaietto ai bordi e al centro della strada. Per tenere la ruota dei migliori andavo sul "pulito" e così, a volte, qualche auto mi strombazzava e l’incompetente autista mi urlava: "Mo stà da ‘na pèrta, cojòn!".

Dopo un altro tratto di rettilineo, c’era una ampia curva a destra quindi la strada spianava all’altezza del cimitero per poi trasformarsi in una ripida rampa di una cinquantina di metri che terminava ai piedi degli scalini che portavano al sagrato della chiesa. Su quella rampa mettevo in atto l’azione decisiva. Improvvisandomi mentalmente radiocronista, mi alzavo sui pedali, scattavo e staccavo inesorabilmente Koblet, Bobet e compagnia. All’altezza dei gradini potevo alzare il braccio in segno di vittoria.

Dopo avere scolato l’imbevibile contenuto delle due borraccette, tornavo verso casa. Dopo avere allentato invisibili cinghietti di altrettanto invisibili fermapiedi, scendevo a valle senza pedalare, pago della mia grande prestazione e se passava qualche auto ero contento perché una bella impolverata supplementare rendeva ancora più gloriosa la mia impresa.

Tornato a casa, nonna Adele mi sfilava maglietta gialla, calzoncini e calzini e li metteva a mollo nel mastello di legno e provvedeva a lucidare gli scarpini di Patrizi. Intanto, io, in mutandine, mi tuffavo nel canale che passava dietro casa e, mentre mi lavavo, cercavo di pescare "a mano" tra i sassi.

 

10 ottobre 2011